Festival delle Letterature Migranti
Ottava edizione
La città futura
di Davide Camarrone, Direttore Artistico del Festival delle Letterature Migranti
Quanto è densa di prospettive, di senso, l’espressione Città futura? Più cento anni fa, nel 1917, Antonio Gramsci, un intellettuale sardo di 25 anni, politicamente impegnato col partito socialista, scrisse ogni singolo articolo del numero unico di una rivista che avrebbe portato questo nome: La città futura. Nel 1937, Gramsci sarebbe morto. Nei suoi undici anni di prigionia nelle carceri fasciste e al confino, avrebbe trovato la forza di studiare e scrivere, consegnando alle future generazioni il frutto del suo lavoro. Ne La Città futura, Gramsci avrebbe scritto dell’animo della sua generazione e dell’odio per gli indifferenti, di analfabetismo, della necessità di assumersi delle responsabilità, dell’importanza di leggere e meditare, dell’accelerazione dell’avvenire dopo la guerra che volgeva oramai alla fine.
Se oggi parliamo di Città futura, guardiamo a quegli aggregati che tra Otto e Novecento hanno attratto popolazioni dalle campagne con la promessa del salario minimo e di un tetto, di un livello minimo di benessere contro una dura giornata di lavoro.
Le città crebbero a dismisura. Le campagne si svuotarono e persero di valore.
Le città mutuarono al loro interno e nel disegno della loro espansione le differenze sociali e culturali che l’industrializzazione imponeva.
Oggi, il chip e le reti costituiscono la rivoluzione più grande dell’umanità dopo la macchina a vapore, la ruota e il fuoco, poiché incidono sul tempo e sullo spazio. Riducono il fabbisogno orario di operazioni fino a ieri complesse e consentono relazioni istantanee tra soggetti distanti tra loro.
Potevano le città non risentirne?
Il degrado delle città è stato affrontato con strumenti diversi – dalla gentrificazione delle periferie e dei quartieri popolari alla loro riqualificazione a beneficio degli abitanti originari -, quando è stato affrontato e non invece rimosso. In molti luoghi del nostro Sud, e talora anche del Nord, il mix dei diversi atteggiamenti ha prodotto un bilancio sostanzialmente negativo.
Oggi, il progresso tecnologico determina tre conseguenze significative, fra le altre.
Una possibilità di accesso a tecnologie di comunicazione efficienti e ad informazioni preziose pressoché universale e relativamente a basso costo (più basso che nel recente passato, se si fa riferimento ad esempio al primo decennio del 2000).
Una riduzione sensibile dei costi di beni e servizi, legata alla digitalizzazione del commercio e alla costituzione di un mercato globale nel quale produttori distanti, e tra loro in accordo o in competizione, producono merci per un pubblico universale di potenziali acquirenti.
Una modernizzazione delle transazioni sociali fondamentali accelerata dalla pandemia: si può lavorare o studiare da casa, si può ridurre efficacemente la necessità di spostamenti concreti alle sole attività o necessità nelle quali la presenza sia indispensabile, si possono intrattenere relazioni virtuali, crescono il peso dell’intrattenimento a distanza e il tempo che siamo disposti a dedicarvi.
Gli urbanisti sono alle prese con un modello di città inefficiente e costosa e con una necessità di profondo ripensamento della sua struttura.
Si è già aperta una competizione tra i piccoli centri per l’attrazione di nuovi abitanti in fuga dalle città e disposti a ulteriori cambiamenti, coscienti che l’orizzonte di ciascuno è nomade, che nessuno immagina con certezza di poter trascorrere l’intera propria esistenza in un solo luogo.
Nei nostri territori, ci possiamo ritenere migranti, e possiamo sperare che questa possibilità sia presto concessa ad altri territori e che si possa ampliare il nostro orizzonte di vita ad altri luoghi, alla ricerca di climi favorevoli nel tempo che ci aspetta e in uno scambio fecondo con altre culture.
Migrazione e condivisione sono le due parole chiave di questa fase del nostro Antropocene.
La metropoli asfissiante di un tempo è in potenza la neopoli dei nostri tempi, figlia di una relazione immateriale tra luoghi fisicamente separati.
La scelta di intitolare questa nuova edizione del nostro Festival, l’ottava, a La città futura, è sommamente politica e nel senso più intimo del termine, che come è noto discende da polis, città, e non nella rivendicazione di una sola ascendenza culturale tra le altre.
Possiamo considerare questa scelta come il precipitato della riflessione condotta nelle edizioni precedenti.
Nel 2020 avevamo scelto “Oasi e deserti”, e nel 2021 il “Corpo condiviso”. Il cammino e la smaterializzazione. La transizione e l’esito. I luoghi della migrazione fisica e intellettuale dell’umanità e il traguardo della nostra interdipendenza.
Cambia quest’anno anche la cosiddetta mappa concettuale nella quale le scelte editoriali e di contenuto dei linguaggi differenti troveranno collocazione, ancorché precaria e interrelata.
Gli Altri, innanzitutto, considerando la necessità di confronto con culture e soggetti altri, l’indefinizione dei confini delle nostre città, la mobilità costante e l’attraversamento dei nostri territori.
La Nebbia che rende indistinti i profili delle nostre abitazioni e ci impedisce uno sguardo lungo, l’incertezza sul nostro futuro prossimo, e che dobbiamo superare e dissolvere mediante la conoscenza e l’acquisizione di nuovi modelli interpretativi.
Lost (and Found) in Translation per riflettere sul valore fondamentale della traduzione e della mediazione culturale e sulla loro funzione, che è letteraria ed è etica, fabbricando un ponte di corde tra mondi diversi.
Le Bolle nelle quali comunità non resilienti ma resistenti al dialogo si costituiscono in un tentativo disperato di resistere al post moderno nel quale tutti ci troviamo a vivere.
I Popoli che scelgono di mutare il loro destino, nei luoghi di nascita e in quelli d’elezione, che assistono al più profondo cambiamento degli ultimi secoli e immaginano un futuro sostenibile.