di Davide Camarrone, Direttore Artistico del Festival delle Letterature Migranti
Nel 2015, ragionando sull’ipotesi di un Festival letterario per Palermo, ci persuademmo a partire dal riconoscimento e dall’analisi dell’identità di un luogo attraversabile e attraversato in ogni direzione: un tuttoporto, per dire dell’antico nome della città: Panormos. Un luogo senza confini, posto al centro esatto del Mediterraneo, del mare di mezzo, fra tre continenti e tre religioni, in un tempo di incomunicabilità e conflitti.
Ipotizzammo una modalità di costruzione di un programma condiviso che non puntasse semplicemente a una rassegna di novità editoriali, ciò che altri Festival fanno egregiamente, bensì alla costruzione di un luogo di riflessione, per mezzo di una sorta di cifrario interpretativo del contemporaneo, un abaco, una griglia di memoria che fosse utile anzitutto per i dodici mesi che sarebbero trascorsi fino all’edizione successiva del Festival. Occorreva pure prendere atto di come, in questa nostra postmodernità, vi sia una diversificazione dei linguaggi narrativi, e nel vuoto pneumatico, senz’anima, della Comunicazione, le Letterature agiscono forme espressive artistiche, musicali, teatrali. Decidemmo infine di avviare un lavoro intenso di relazione con le realtà vitali della città, coi suoi quartieri e le sue diverse anime.
Vivevamo e viviamo un tempo di tumultuosi cambiamenti, di migrazioni dettate da crisi e ostilità legati al cambiamento climatico e alla disponibilità di risorse naturali sempre più limitate, di rapide evoluzioni tecnologiche per la comprensione delle quali soccorrevano e soccorrono filosofi e scienziati sociali e più ancora i narratori. Le Letterature ritrovavano e confermano, nel tempo accelerato che stavamo e stiamo ancora vivendo, una funzione essenziale di decifrazione del nostro tempo.
A questo riguardo, potremmo ricordare i tre libri che hanno segnato i principali punti di crisi del nuovo millennio, con cadenza pressoché decennale. Testi di ricerca, no fiction, che si contraddistinguono pure per qualità letteraria, per l’interazione con la fiction. No Logo, di Naomi Klein. Il Capitale, di Thomas Piketty. Il capitalismo della sorveglianza, di Shoshana Zuboff.
L’elenco dei testi letterari che hanno infranto silenzi e riserve sul rapporto tra scrittura e Contemporaneo è oramai sterminato, e a titolo di esempio si potrebbero citare Wole Soyinka, Abraham Yehoshua, Valeria Luiselli, Vladimir Sorokin, Alia Malek, Ece Temelkuran, Hisham Matar, Javier Cercas, Edoardo Albinati o Antonio Scurati, alcuni dei quali sono stati ospiti delle scorse edizioni del nostro Festival. E tra le letterature e le riflessioni filosofiche e sociologiche sul nostro tempo, la relazione è vivificante.
L’umanità vive oramai da quasi due anni il passaggio più delicato dell’ultimo dopoguerra, connotato da una pandemia di dimensioni a memoria d’uomo senza precedenti. Il distanziamento fisico che ne è conseguito, la spinta alla ricerca condivisa, l’accelerazione tecnologica necessaria alla comunicazione, al lavoro e allo studio a distanza finalizzati alla prosecuzione di ogni altra attività fondamentale, hanno acuito antiche contraddizioni dei diversi sistemi politici e sociali e in modo imprevisto hanno indicato possibili vie d’uscita da crisi difficilmente governabili come il climate change.
Possiamo dire che le questioni del clima e del Tempo (accelerato, lineare o circolare, regressivo o progressivo) hanno superato dubbi e negazionismi sono tornate al centro della riflessione sulla condizione umana, che l’illusione della smaterializzazione confligge con la fragilità dei nostri corpi, che richiede attenzione pure il meccanismo di inclusione/esclusione geograficamente variabile per genere dal sistema culturale/industriale, dal governo e dalla rappresentanza.
Il tema della settima edizione del Festival delle Letterature Migranti – il “supertema” che ispirerà le diverse sezioni del Festival e in primo luogo quella letteraria – è costituito da quel che abbiamo chiamato “corpo condiviso”.
La ritrovata centralità del corpo in un’epoca connotata dalla smaterializzazione delle relazioni è quasi una nemesi per una generazione che riteneva di doversi chiudere in una bolla protetta e di rinviare alla rete il dominio delle proprie esistenze.
Da una parte infatti ci troviamo a gestire online il lavoro, la formazione, gli affetti, dall’altra richiediamo una nuova considerazione del corpo (e qui dovremmo soffermarci a lungo, sui diritti che maturano e sulle forme autoritarie del pensiero).
Mai forse come in questa fase storica, il tema della fisicità ci accomuna: per quel che accade intorno a noi, per le conseguenze del degrado ambientale, per la nostra fragilità estrema e per il rischio di fraintendimento delle opportunità forniteci dalla tecnologia.
Siamo dinanzi a contraddizioni storicamente inedite.
Le società occidentali scosse dalla pandemia individuano nel benessere fisico la priorità futura.
Si ragiona sulla condivisione del sapere per la cura del corpo mentre emergono nuovi conflitti intorno al sapere medico.
La perdita dell’idea del sacro si confronta con la sacralizzazione del corpo e con l’uso del corpo macchina e la fungibilità delle sue parti.
Per la prima volta dopo l’abolizione della schiavitù negli USA, riemergono delle schiavitù materiali e immateriali.
La promessa di eternità del sapere si scontra con la paura dell’estinzione.
Siamo di fronte a una rielaborazione della nozione di spazio, con la perdita del guscio e la nascita della casa comunicante.
La promessa di socialità si confronta con il ritrarsi dal gruppo e con la necessità di una nuova teoria organicista, nel tempo dello sharing diffuso e del tramonto della proprietà necessaria, della costituzione di un corpo sociale capace di superare i confini nazionali e di unirsi attraverso i moderni strumenti di comunicazione. Ciò che ricade sulle diverse forme espressive nonché sulla creazione artistica condivisa, sul teatro senza pubblico e sull’importanza del corpo dell’attore, sulle nuove forme editoriali e sulla perdita della nozione di proprietà dei diritti, sulle ibridazioni narrative e artistiche.
La declinazione del Festival attraversa queste contraddizioni e prova a raccontarle al femminile. Interamente al femminile, salvi ovviamente i discussant.
Il nostro Festival cambia un poco anche quest’anno. Il programma non è mai stato una rassegna ma ha sempre provato a dar vita a una sorta di canone interpretativo del nostro tempo. E quest’anno come mai, percepiamo il crollo di un sistema di pensiero orientato al maschile, la necessità di una profonda revisione che parta dal dibattito che in questi anni le donne hanno condotto sulle fragilità sociali, sulle restrizioni e le violenze delle quali ancora le nostre comunità si nutrono.
La selezione dei testi, suddivisi nelle diverse scatole narrative, ha provato pure a tener conto di una realtà editoriale che sta cambiando sotto i nostri occhi, confermando l’opportunità o meglio la necessità di una scelta così radicale (la declinazione al femminile) e interagendo come di consueto con le altre sezioni del Festival (una delle quali si rinnova profondamente col passaggio dall’audiovisivo alle transizioni digitali e l’ingresso tra i curatori di Simone Arcagni, che affianca Dario Oliveri, Agata Polizzi, Giuseppe Cutino, Eva Valvo e Domenica Perrone).
Una selezione lunga e complessa che confidiamo possa avvicinarsi all’obiettivo che ci eravamo prefissi.